Cicatrici nell’anima

Intervista alla dottoressa Migneco sui Minori stranieri non accompagnati
Intervista alla dottoressa Roberta Migneco dirigente psicologa e psicoterapeuta presso il Centro di Salute Mentale di Agrigento

La dottoressa è messinese e per alcuni anni ha avuto vari incarichi presso il Tribunale dei Minori, sia nell’ambito dei Servizi Sociali e del Centro di Prima Accoglienza, sia con la nomina di CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio).

Per undici anni ha anche lavorato presso l’Istituto per il Commercio ed il Turismo “S. Pugliatti” di Taormina, in cui come Psicologa ha aperto uno sportello d’ascolto per studenti, docenti, genitori, dando supporto individuale e di gruppo.

Dal 2009 ha nuovamente prestato servizio, questa volta come volontaria, presso un Centro di Prima Accoglienza come Psicologa dell’emergenza della Task Force della Protezione civile. 

In ambito neuropsicologico ha lavorato per cinque anni al centro neurolesi Bonino Pulejo della nostra città. Ha avuto poi altri incarichi sempre a Messina presso il reparto di oncologia dell’Azienda Ospedaliera  Papardo.

Anche a Roccella Ionica (RC), dove ha abitato per qualche anno, ha assistito i minori, sia accompagnati che non, appena sbarcati.

È sorridente, alla mano, accogliente, comunicativa anche con lo sguardo, oltre che con le parole. Così ci appare in video la dottoressa Migneco, dietro di lei la sua casa, il suo mondo. Si presenta e ci parla con dolcezza, ci invita a non provare imbarazzo e a porle tutte le domande che vogliamo.

Redazione: Nel periodo in cui ha lavorato presso il Tribunale ordinario e dei minori di Messina ha incontrato tanti minori non accompagnati? Che età avevano?

Gli sbarchi

Roberta Migneco: I  minori non accompagnati che ho conosciuto meglio, perché hanno fatto una lunga sosta presso il Centro di Prima Accoglienza, erano al limite della maggiore età, avevano 17 anni. Provenivano dalla Nigeria. La provenienza è importante perché la storia influisce sulle regole morali e sociali. E la storia di alcuni Paesi dell’Africa è caratterizzata dalla presenza di stranieri. In Nigeria gli americani non hanno lasciato buone tracce: gli abitanti hanno assorbito la rincorsa al denaro e al potere, che li porta ad una prepotenza che è tipica di noi occidentali e che in altri Paesi africani non riscontriamo. E proprio con due di questi minori non accompagnati nigeriani, che per altro avevano una storia di continui trasferimenti da una struttura all’altra, cosa che può anche avere influito sulla loro modalità poco consona di porsi, ho dovuto affrontare una situazione di aggressività nei miei confronti.

Agli sbarchi ho assistito all’arrivo di  minori accompagnati, bambini  nella fascia di età dai 5 ai 7 anni, con un vissuto molto forte, perché separati da uno dei due genitori. Quando organizzano i barconi, acchiappano le persone come capita, senza stare a vedere se ci sono genitori, se ci sono minori,  perché lì, in Libia, c’è la “tratta degli uomini”.

Storie di bambini

Un bambino che ho seguito aveva sviluppato un disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività, molto probabilmente conseguentemente al forte stress post traumatico, perché per un periodo è stato separato dalla madre. Era stato anche in carcere da solo. Quando l’ho conosciuto io aveva sette anni. Il viaggio lo aveva affrontato che ne aveva appena sei.

Questo deficit è il disturbo più evidente che riscontriamo spesso nei soggetti che provengono dalla Libia. Ma non è solo la Libia il problema. Il problema è che i migranti devono  attraversare il deserto in condizioni veramente disumane.

Un altro minore che ho seguito, accompagnato dalla madre, ma che era stato separato dal padre durante il viaggio, era un bambino autistico di cinque anni, quindi c’era un’ ulteriore complicazione per entrare in contatto col bimbo sotto shock, che continuava a cercare il padre. La cosa magica che è accaduta è che il bambino si era accucciato a me, quindi nei momenti di emergenza non c’è patologia che tenga: il contatto umano fa da maestro.

R: C’è in particolare la storia di un bambino che ha seguito che le è rimasta più a cuore, da chiedere informazioni su di lui anche dopo il percorso?

R.M.: Sì. È la storia del bambino di cui vi accennavo prima, quello con disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività, conseguente al  disturbo post traumatico da stress. Se volete approfondisco questo argomento perché è il primo effetto di situazioni molto traumatiche.

Disturbo post traumatico da stress

Sono definite traumatiche le situazioni nelle quali sperimentiamo un senso di impotenza, perché sono molto più grandi della nostra capacità di farvi fronte e durano oltre un tempo limite, che è quello della nostra sopportazione dello stress. Superato il limite di tempo, avendo a che fare con uno stimolo stressogeno, subentra il disturbo d’ansia post traumatico da stress, che si può manifestare o mantenendo comunque un contatto con la realtà, o attraverso episodi psicotici, con deliri e allucinazioni. Il  disturbo d’ansia post traumatico da stress si caratterizza per la tendenza ad avere immagini ricorrenti che riguardano lo stimolo che ci ha stressato. Per esempio “rivedere” la propria mamma che viene violentata o bastonata…perché in Libia facevano assistere alle sevizie anche i parenti.

Di disturbi d’ansia post traumatica da stress ne ho visti parecchi, anche con manifestazioni psicotiche.

Per quanto riguarda il bambino di sette anni avevo difficoltà ad ottenere la sua attenzione proprio per il disturbo che aveva: si concentrava per qualche secondo, poi si distraeva. Ho utilizzato i puppets, che sono dei pupazzi molto efficaci con i bambini.

La psicologa ci chiede se vogliamo vederli. Si infila nella mano un pupazzo dal pelo bianco che inizia a muoversi, apre la bocca e con le zampine rosa si stropiccia gli occhi.

Vi presento Mister Topo, che è quello che  riscuote più successo con i bambini, anche con quello di sette anni. Attraverso il gioco, il disegno e l’utilizzo di questi animali – i bambini con facilità si identificano con i personaggi delle storie – si possono mettere in scena tutte le emozioni.

E con il gioco arriva la catarsi

Raccontare una storia, una storia “altra”,  è sicuramente “meno pericoloso” che raccontare la propria. È però inevitabile che la propria influisca sulla costruzione della nuova storia.

Già gli antichi greci utilizzavano il teatro come elemento catartico: vedere una storia che apparentemente non ci tocca, ci permette di trasferire le nostre emozioni su personaggi esterni.

Con quel bimbo ho utilizzato sia i disegni che i puppets. In una prima fase il disegno mi è stato indispensabile perché mancava il raccontato della madre, proprio per il lungo periodo di separazione dei due. Gli ho chiesto di disegnare la sua famiglia e un personaggio a sua scelta. Lui si è raffigurato come un  leone, quindi in qualche modo il bambino mi ha dato l’input che si stava costruendo una corazza da duro per far fronte a ciò che aveva vissuto e visto.

R: Da quali parti dell’Africa arrivavano prima di fermarsi in Libia?

R.M.: Questi minori non accompagnati provenivano prevalentemente dal Centro e dal Sud Africa: Gambia, Sudan ad esempio, e moltissimi anche dalla Nigeria. E’ molto più raro invece vedere nordafricani, perché  qui la situazione economica non è messa male come nel resto del continente. Marocco, Algeria, Tunisia sono più a contatto con l’Europa, e c’è comunque una storia regolare di emigrazione.

L’imprevedibilità

R: Che tipo di traumi hanno subito i ragazzi giunti in Libia?

R.M.: L’elemento traumatico per eccellenza è l’imprevedibilità: è traumatico subire violenza ingiustificata e assolutamente cieca.

Quando ho avuto modo di andare tutti i giorni al Centro di Prima Accoglienza, ho scoperto che in Libia chi è nero di pelle viene puntato da cecchini, che poi sono liberi cittadini, che si piazzano alle finestre e sparano come in un video-gioco alle persone nere (un africano contro un africano … è incomprensibile!). Da noi è arrivato un ragazzo che non aveva più l’uso delle gambe, perché colpito alla colonna dorsale. E di questo “strano gioco” mi hanno parlato tanti altri migranti tornati da quel Paese.

Quindi è traumatica la cattiveria ingiustificata, perché se io riesco a dare un senso a questa cattiveria, riesco anche parzialmente a digerirla, ma se mi è incomprensibile e per nulla prevedibile, la situazione diventa stressante. Gli elementi del disturbo post-traumatico da stress sono proprio questi: percepire l’imprevedibilità di un evento traumatico e la gratuità, la mancanza di spiegazione, che comunque non giustificherebbe l’atto, ma ci permetterebbe di riorganizzare l’ambiente in cui viviamo.    Quando sono entrati un po’ in confidenza con me, i migranti mi hanno subito mostrato le tracce fisiche, quasi avessero paura di non essere creduti riguardo le violenze subite nelle carceri libiche: frustate, sigarette spente sul corpo, tagli, cicatrici che non sono solo fisiche, ma che si percepiscono all’inizio anche a livello non verbale, perché il dolore che ti comunicano ce l’hanno negli occhi.

Insieme per salvarsi

R: Qual è stata l’esperienza più drammatica che le è rimasta impressa?

R.M.: Sono tante. C’è l’imbarazzo della scelta. Mi piacerebbe però raccontarvi un evento in particolare perché rappresentativo della forza della disperazione che ci fa essere solidali quando ci troviamo nella stessa situazione. Un medico omeopata, arrivato dal Gambia, con cui oggi ho un bel rapporto di amicizia, mi ha raccontato che, durante la traversata col barcone, un altro ragazzo africano che non conosceva, è svenuto e se l’è ritrovato addosso. Da bravo medico ha tenuto tutto il tempo sotto controllo il polso. Non ha potuto fare altro, perché non c’era possibilità di movimento, erano tutti attaccati gli uni con gli altri. Uno degli scafisti lo aveva preso con l’intenzione di buttarlo in acqua, per alleggerire il barcone, perché convinto che fosse morto.

Mi è rimasta impressa la descrizione del mio amico perché per lui è stata una tragedia: ha tenuto lo sconosciuto con “le unghie e con i denti” urlando che era vivo, di non buttarlo in acqua. È riuscito a salvarlo. Questo ve lo porto come esempio, perché anche nei momenti di maggiore disperazione, la nostra salvezza è la coesione.

R: I ragazzi riuscivano a parlare delle loro drammatiche esperienze o avevano difficoltà a farlo?

R.M.: Se abbiamo un problema immediato preferiamo non essere infastiditi. Anche con chi arriva da un lungo viaggio, dopo aver vissuto vari drammi, bisogna rispettare i tempi e creare prima di tutto un clima di sicurezza e tranquillità.

L’accoglienza

I ragazzi vengono accolti subito dopo essere scesi dal barcone, per cui bisogna moderarsi con le domane, perché per loro il viaggio è un argomento recente e delicato. Si trovano in un momento difficile e non bisogna costringerli affinché parlino e raccontino la loro esperienza.

Uno psicologo cerca di scoprire i traumi di una persona per aiutarla, ma ovviamente deve rispettare anche il suo silenzio. Il metodo indiretto è il più delicato per scoprire cosa è accaduto a questi ragazzi. La cosa importante è farli sentire al sicuro e far capire che possono fidarsi e confidarsi. Capito questo, saranno pronti a farsi aiutare e racconteranno la loro tragica esperienza.

Con loro parlavo in inglese, lingua che conosco molto bene.

R: Le violenze che queste persone subiscono non causano in loro la sensazione di sentirsi inutili e sbagliate?

R.M.: Queste persone si sentono impotenti e credono di essere l’ultima parte del mondo,  insignificanti e inutili. A ciò si aggiunge il senso di colpa che provano perché magari loro sono riuscite a sopravvivere mentre amici o familiari sono morti durante il viaggio o sono rimasti nel luogo di origine, nel quale queste persone temono di non poter più tornare. Lasciano la propria terra, i propri affetti e tutto ciò che hanno, per scappare da guerre e fame. Decidono di rischiare la vita mettendosi in viaggio per raggiungere luoghi che nemmeno conoscono e senza sapere ciò che li aspetta. A causa del dolore e della violenza di cui sono vittime, queste persone non credono neanche più nell’umanità.

Creare uno spazio di sicurezza

Le uniche cose per ripagare il loro coraggio e la loro forza è l’accoglienza, le cure e l’amore di cui per molto tempo sono state private. Dare accoglienza, prestare ascolto, creare uno spazio di sicurezza, quindi, diventa l’imprevedibilità positiva, diventa una possibilità virtuosa.

Volevo aggiungere che, quando ho lavorato presso i Servizi Sociali del Tribunale dei minori, venivo convocata dal Procuratore della Repubblica come CTU per affiancare i minori abusati, che venivano interrogati per conoscere i fatti. La figura dello psicologo garantiva il rispetto dei diritti dei minori e svolgeva il ruolo di mediatore nel caso si fosse trattato di violenze importanti… Erano tutte violenze importanti!

Diritti violati

Ho seguito un caso di un minore non accompagnato, che era in una comunità a Messina. Aveva subito abusi sessuali e i pedofili erano italiani, che abitavano tutti nello stesso stabile per proteggersi a vicenda.

I pedofili hanno la malsana abitudine anche a Messina, come in altre città d’Italia, di andare in giro in cerca di minori non accompagnati provenienti dall’Africa. Offrono colazione e soldi per portare poi i ragazzini a casa. Dentro l’anima dei minori si rompe così il legame di fiducia con gli adulti, spesso persone di riferimento.

Sono stata anche per tredici mesi, sempre presso il Tribunale dei minori, a disposizione h24 per il CPA, micro-carcere che si utilizza per far sostare i minori tra i 14 e i 18 anni colti in flagranza di reato. Non  mi è mai capitato in quell’anno di trovarvi un minore straniero. Erano tutti italiani. Questo per sfatare un pregiudizio che abbiamo noi italiani. Nonostante gli stranieri siano in condizioni svantaggiate, ciò non li espone a rischio maggiore di commettere reato.

Soli e indifesi

R: Quanto ha inciso nella loro psiche il fatto che fossero soli, che non avessero i genitori accanto?

R.M.: Quando si è soli e indifesi, ci si sente vicino alla morte e si crede che gli altri siano più forti e più potenti, dunque capaci di farci del male.

Da un lato essere soli, senza genitori, impotenti e in pericolo, provoca la morte psicologica, d’altro canto però esperienze così forti e significative, se si riesce a superarle, fanno crescere e fanno capire l’importanza della vita. Molti ragazzi riescono a sopprimere il loro dolore, perché dopo essere sopravvissuti al viaggio e dopo essere stati accolti, hanno capito che finché c’è vita c’è speranza. Comprendono che la speranza non muore mai e dà la forza di andare avanti. Dunque l’esperienza del viaggio lascia paradossalmente un segno positivo.

Un fondo di speranza

R: Qual era il suo stato d’animo dopo aver sentito le storie dei ragazzi che aiutava?

R.M.: Ero devastata. Ma il mio stato d’animo era lo stato che giustificava il fatto che mi ripresentassi ogni volta che mi chiamavano. Un fondo di speranza. Io posso permettere che un bambino per mezz’ora, per un’ora, possa sentirsi comodo, possa fidarsi ancora di un adulto.

La cosa importante è tenere le distanze e non forzarlo a parlare.  Si deve sempre aspettare che sia il bambino a fare il primo passo di sua spontanea volontà.

Il fatto che quei bambini seviziati, violentati e che avevano difficoltà a relazionarsi, si fossero fidati di me, era una sensazione meravigliosa e bellissima. Un grande traguardo.

Cure mediche, beni di prima necessità e soprattutto amore e affetto

R: C’è un’equipe prevista per accoglierli?

R.M.: Gli operatori del Centro di Prima Accoglienza si presentano immediatamente. Quando ero a Roccella Ionica, il Centro era gestito dalla Protezione Civile.

La Croce Rossa e il 118 sono sempre presenti con un’ambulanza e un medico, con coperte isotermiche, con cibo e acqua. Anche la Protezione civile porta molte bottiglie di acqua perché sono tutti disidratati e molti non riescono a stare in piedi: dopo giorni e giorni di mare quasi tutti soffrono il mal di terra. E poi ci sono altri operatori, infermieri, volontari.

Non credo ci sia un organico preciso. A Roccella funzionava benissimo la Croce Rossa.

R: Che tipo di aiuto riuscivate a dare loro?

R.M.: Diamo cure mediche, beni di prima necessità, pasti caldi, un posto accogliente in cui possano ripararsi, dormire e curare la propria igiene, supporto psicologico e soprattutto diamo amore e affetto. Ovviamente noi ci mettiamo a loro disposizione, ma dobbiamo rispettare il loro diritto di scegliere se essere aiutati o meno.

Un’esperienza forte, dunque, quella della dottoressa quando ha assistito come psicologa i minori non accompagnati. Ha visto tanti africani arrivare sotto shock per i traumi subiti durante il viaggio e lo stallo in Libia. Minori non accompagnati o accompagnati da un solo genitore, che avevano urgente necessità di recuperare la fiducia negli altri. E gli altri siamo noi che li accogliamo e che dobbiamo dare loro aiuto, sempre nel rispetto delle diversità.

Ringraziamo la dottoressa per il suo intervento e per il contributo che ci ha dato per la nostra inchiesta.

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