Il giudice Falcone e “le menti raffinatissime”

monumento dedicato al giudice Falcone nel luogo della strage
Monumento alle vittime della stragi di Capaci
La strage

Il 23 maggio 1992 in un attentato terroristico-mafioso perdevano la vita il Giudice Giovanni Falcone, sua moglie, la magistrata Francesca Morvillo, gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Nel 31° anniversario della morte del magistrato noi scegliamo di riflettere sugli ultimi 6 anni della sua vita.

Dal 1987 al 1992 il magistrato subisce un continuo e inesorabile processo di delegittimazione. La sua immagine pubblica viene offuscata da calunnie, dicerie, chiacchiere diffuse ad arte, che alle volte hanno, purtroppo, trovato una sponda anche all’interno della magistratura.

Perché soffermarsi su questi anni? Per spirito di verità, per rendere giustizia al giudice Falcone che ne ha sofferto, ma anche e soprattutto perché la campagna denigratoria che il giudice ha subito in quegli anni costituisce una modalità ricorrente della strategia mafiosa.

Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno“, diceva il giudice Falcone.

Cosa nostra

Riflettere sull’opera di delegittimazione avvenuta negli anni considerati diventa, dunque, anche un modo per comprendere e smascherare una tipica modalità dell’agire mafioso.

“Cosa nostra” mette sempre in atto un deformante gioco di specchi rivolto a colpevolizzare la vittima, a insinuare il dubbio, ad inquinare le prove. Si infiltra facendo leva sui nostri peggiori istinti e le nostre debolezze. Sentimenti di invidia arricchiti da una naturale diffidenza, a cui noi siciliani siamo spesso portati. Ed è così che il malefico gioco degli specchi riflette un Giovanni Falcone ambizioso, disposto a compromessi pur di emergere. Un Giovanni Falcone che non esiste ma che, ahimè, ai mediocri appare più credibile del vero.

L’estate del 1989

Due gli episodi gravissimi che testimoniano il clima di delegittimazione e il pericolo in cui il giudice Falcone si trovava: l’attentato dell’Addaura e la stagione dei veleni con il cosiddetto corvo del Palazzo di giustizia di Palermo. Le due vicende sono strettamente collegate, temporalmente e strategicamente.

Il 20 giugno del 1989 all’Addaura, sulla scogliera adicente alla villa in cui Falcone trascorreva le vacanze, gli agenti della sua scorta trovano un borsone contenente 58 candelotti di dinamite. Riescono, così, provvidenzialmente, a sventare l’attentato ai danni del giudice.

Sull’attentato iniziano, però, a correre dicerie volte, come abbiamo detto, ad offuscare l’immagine del magistrato. A tal proposito Falcone amareggiato, ironicamente, dichiara: “Questo è il Paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere“.

Dà, però, la sua seria analisi sull’attentato in un’intervista rilasciata al giornalista Saverio Lodato sull’Unità, quotidiano del PCI. Nell’intervista parla di menti raffinatissime che tendono ad orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile, se si vogliono davvero capire le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”. E ancora fa un esplicito riferimento alla dinamica dell’omicido del generale Dalla Chiesa: “Stesso copione, sono solo come Dalla Chiesa“.

A ridosso del fallito attentato giungono le lettere anonime che lo accusano di aver utilizzato il pentito Salvatore Contorno per eliminare la mafia corleonese. Dai dati riportati nelle lettere anonime, dati di cui solo pochi magistrati palermitani potevano essere a conoscenza, si può dedurre che il c.d. Corvo, il calunniatore, fosse interno al Palazzo di giustizia palermitano. Non è stato comunque realmente mai chiarito chi fosse l’autore. Ancora una volta si butta fango su Giovanni Falcone!

A Roma

In questo clima infuocato e velenoso Falcone, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo, incontra gravi difficoltà nello svolgimento del suo lavoro.

Il magistrato decide, quindi, nel 1991 di accettare l’incarico di Direttore degli Affari Penali al Ministero di Grazia e Giustizia che gli viene offerto dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli.

Anche questo nuovo incarico, come ormai era prevedibile, è sommerso da un coro di accuse ed illazioni.

In sintesi, essenzialmente, lo si accusa di aver lasciato la magistratura per una carriera nei “Palazzi del potere”. La campagna denigratoria, quindi, non si ferma!

Eppure il coraggioso magistrato al Ministero di Grazia e Giustizia porta avanti formidabili risultati, elaborando nuovi strumenti legislativi per rendere più efficace il lavoro della magistratura contro la mafia.

Nascono così le procure distrettuali antimafia coordinate da una Direzione nazionale antimafia. Si semplifica anche il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria a sua volta coordinata dalla DIA (Direzione investigativa antimafia).

Per la Direzione nazionale antimafia quale candidato più esperto e qualificato di Giovanni Falcone? E in effetti tutto fa pensare che questo incarico vada al magistrato.

Siamo ormai, però, praticamente arrivati al tragico 1992.

Il punto di non ritorno si ha il 30 gennaio del 1992: la Cassazione conferma l’impianto accusatorio di Giovanni Falcone e le condanne inflitte in primo grado.

4 mesi dopo la strage!

Prima ti delegittimano, poi ti isolano e poi ti ammazzano.

Ma nessuno è riuscito realmente a scalfire la memoria del Magistrato Giovanni Falcone, che è rimasto nel nostro ricordo limpido e brillante come un diamante.

Marco Aloise e Ilenia Adamo 4°D Biotecnologie ambientali

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